Pesaro, 29 giugno 2012 – Alla 48. Mostra di Pesaro è in corso di svolgimento un corposo focus intitolato “Il cinema documentario oggi: l’Italia allo specchio”, una selezione di 19 lavori (a cui si aggiungono due proiezioni speciali e le due dell’Avantfestival) che fanno il punto sullo stato delle cose del documentario nostrano e dell’Italia stessa, ritratta criticamente da una grande varietà di punti di vista che ne mettono in luce gli aspetti problematici, irrisolti, contraddittori.
Oggi in mattinata al Teatro Sperimentale si è svolta un’importante tavola rotonda intitolata Il documentario “sociale” dal cinema al web, coordinata dal direttore artistico del Festival Giovanni Spagnoletti, il giornalista Maurizio Di Rienzo e il regista Marco Bertozzi. Ad essa hanno partecipato tutti i documentaristi presenti a Pesaro in questi giorni, tra i quali Milo Adami, Pietro Balla, Mariangela Barbanente, Sergio Basso, Alessandro Borrelli, Felice D’Agostino, Antonietta De Lillo, Arturo Lavorato, Luca Mosso, Gianfranco Pannone, Paolo Pisanelli, Monica Repetto e Luca Scivoletto. Sono stati inoltre coinvolteanche le più importanti associazioni di categoria come Doc/it, Centoautori e piattaforme integrate di video on demand come On the Docks.
L’incontro è stata un’occasione per fare il punto sul documentario nostrano, discutere sulle azioni da intraprendere per dare maggiore visibilità alle opere e ipotizzare strategie future attraverso l’uso delle nuove tecnologie, per uno sfruttamento ponderato e costruttivo del web in tutte le sue forme, dai social network alla diffusione in streaming. Il confronto quindi è stato produttivo e variegato e sono emerse posizioni differenti su diverse questioni.
Il problema della distribuzione sembra essere quello che maggiormente preoccupa i documentaristi. Comincia Marco Bertozzi “Per la distribuzione, ci sono molti esempi alternativi in rete come l’”on demand”, ma è un campo difficile da regolamentare anche dal punto di vista giuridico, è un dibattito enorme anche etico quello sui diritti d’autore
tra giusta rendita economica e la possibilità di vedere i prodotti.” Ma le proposte ci sono, come fa notare Monica Repetto (regista e rappresentante di On the docks): “E’ vero, la distribuzione è sempre lo scoglio maggiore. La nostra idea è stata quella di aprire una piattaforma di video on demand che sia visibile in tutto il mondo, in italiano e con sottotitoli in inglese, ma il mercato e il pubblico non sono pronti per lo streaming a pagamento, solo il 5 % che accede poi compra, ma America, Canada e Inghilterra dimostrano che è possibile. In Italia poi c’è resistenza anche da parte degli autori perché c’è il timore che lo streaming possa ostacolare la circolazione in tv, sale o festival, ma è un timore per me ingiustificato.” Un timore che sembra confermato dalle parole di Andrea Stucovitz: “La rete non rende economicamente nulla perché in Italia non c’è una legge sulla pirateria. Far capire che scaricare è un reato serio è difficile ed è un dovere educativo delle istituzioni e delle associazioni di categoria.” Ma riconosce il valore positivo della rete quano afferma: “la rete è l’agora tradizionale che ormai non c’è più fisicamente ed è stata sostituita dalle comunità sul web, è un modo per confrontarsi sul film. Non avrà lo stesso fascino della sala, ma le possibilità ci sono come dimostrano On the Docks e Ownair.” A Stucovitz si accoda Mario Balsamo (Centoautori): “Altro problema, la convizione che quello che sta sul web debba essere sempre gratis: in questo modo un progetto produttivo non potrà mai svilupparsi adeguatamente. Il web richiede anche durate diverse, quattro minuti sono già molti.” Scettico sull’utilità del web appare anche Arturo Lavorato quando dice: “Il luogo di confronto non può essere virtuale, deve essere un luogo vivo, come la piazza. Bisogna costruire un impegno all’incontro, alla relazione e alla scoperta per sollecitare il pubblico a vedere la realtà in modi differenti.”
Ma i documentaristi italiani sono pronti anche a prendersi le proprie colpe se i lavori non riescono ad avere la distribuzine che meriterebbero, primo fra tutti Gianfranco Pannone che dice: “’C’è la crisi e da noi non esiste un sistema produttivo/distributivo come quello francese, ma dobbiamo iniziare ad assumerci delle responsabilità, abbiamo perso delle occasioni. E se facessimo un cinema più incisivo, capace di imporsi? Non solo documentari socialmente utili ma anche socialmente pericolosi.” Gli fanno eco le parole di Luca Mosso: “Partirei dalla sollecitazione di Gianfranco, bisogna assumersi delle responsabilità. Non si possono rifiutare a priori né il web né il digitale.”
Per Sergio Basso: “Una volta messi a fuoco i contenuti, il secondo livello è capire come comunicarli alla gente. Lavorando a fianco dei giornalisti, ho capito che a volte è necessario anche accettare dei compromessi frontali per avere il privilegio di parlare
alle persone.” Mentre secondo Felice D’Agostino: “il problema è a monte, bisogna pensare e produrre un film tenendo conto del modo in cui verrà visto, se su un grande schermo o su quello piccolo di un computer o una tv.” Anche secondo Cristina Piccino tener conto delle modalità di ricezione del fruitore finale è fondamentale. Poi attacca: “Si pensa che il documentario debba essere come un articolo di giornale su un argomento di attualità concentrandosi solo su temi e argomenti. Quasi mai si parla invece di documentario dal punto di vista della messa in scena o del lavoro sulle immagini.”.
Paolo Pisanelli sembra aver chiari i punti sui quali bisognerebbero insistere: “Ci sono tre parole su cui riflettere: alfabetizzazione, perché senza sapere come si comunica con le immagini non si va da nessuna parte. Coraggio, perché è un cinema che richiede energie enormi per scontrarsi contro le difficoltà economiche, ma il coraggio non è solo quello di produrre, ma anche inventare formule nuove. Infine, rivoluzioni, bisogna farle mettendo insieme persone che sappiamo fare un lavoro politico e ottenere delle leggi.”
Sull’aspetto educativo si concentrano invece Bertozzi e Balsamo, il primo afferma: “ è importante l’aspetto educativo, sarebbe bene inserire l’insegnamento dell’educazione visiva a scuola. L’alfabetizzazione dei bambini avviene soprattutto attraverso la tv/pubblicità e ancora non siamo riusciti a creare dei contraltari, ma la battaglia per la nostra tv pubblica è fondamentale, non bisogna mollare la presa.” Il secondo dice: “stiamo cercando di entrare anche nelle scuole, portando film e autori a incontrare gli studenti.”
Alessandro Borrelli ancora sui problemi della distribuzione e le disattenzioni dei produttori: “io lavoro sulla sala perché è l’unico sbocco che c’è, in tv gli spazi non ci sono. Se un lavoro si vede solo a un festival e il film non vive, non ha molto senso. Perciò cerco di fare pochi documentari ma mi impegno a trovare una distribuzione nelle sale. Alle Giornate di Riccione tutti si sono lamentati per la disattenzione di produttori e distributori nei confronti degli esercenti. Siamo in un momento di crisi ma può essere anche un momento di opportunità, bisogna cercare i luoghi e trasformarli.” Anche Christian Carmosino crede nella possibilità di vedere il documentario nelle sale: “bisogna dimostrare agli esercenti che c’è un pubblico anche per il documentario, il pregiudizio contro il doc fa sconfitto, bisogna premere perché le sale si digitalizzino, superare il concetto di sala come programmazione di un solo film al mese, per diventare piccoli palinsesti. Noi come documentaristi dovremmo aiutare le sale a programmare più film e così allargare il bacino del pubblico.” Concorda su questo aspetto anche Andrea Stucovitz: “io faccio persino il door to door, bussando a tutte le sale, perchè se il film non vive, non viene visto, nemmeno la tv avrà interesse a mandarlo in onda. Un film bello che nessuno vede è una dele cose più drammatiche che possano capitare nel nostra campo.”
Mariangela Barbanente (regista e rappresentante di Doc/It) conclude: “E’ un periodo di transizione e noi siamo in marcia, non è ancora tempo per le proposte nette e concrete. I periodi di transizione sono però importanti per infilarsi nelle ruote dei meccanismo. Anche per noi è importante il lavoro nelle sale perchè non c’è sperimentazione e non c’è arte se non c’è prima un mercato e un cinema commerciale. E’ per questo che bisogna battersi e impegnarsi: è soltanto facendo circolare denaro che si possono ottenere risultati pratici.”
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