Luigi Comencini, architetto dei sentimenti

«Ho l’impressione che il cinema italiano, che non si è mai occupato a fondo del “privato” (io faccio un po’ eccezione, da questo punto di vista), non possa ormai più fare a meno di rispondere alla nuova, prepotente esigenza del pubblico: l’esigenza di guardarsi allo specchio, di ritrovarsi in storie che affrontino i problemi dell’individuo. La commedia all’italiana, derivata dal neorealismo, e perciò fondata sull’osservazione sociale, sulla satira di costume, ha sempre trascurato l’indagine sui personaggi. Commettendo anche, magari in buona fede, dei grossi errori. Già lo dissi a proposito de L’ingorgo: a furia di perdonare come “simpatici” tutti i difetti degli italiani (secondo l’atteggiamento tipico della nostra “commedia”), si finisce col contribuire alla disgregazione della società. Ecco perché mi sembra giunto il momento di cambiar rotta, di puntare su film non già moralistici, intendiamoci, ma, semplicemente, morali»
(Luigi Comencini, 1980)

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